L’organizzazione sociale ha bisogno di creare categorie dentro le quali inserire tutto ciò che può creare ansia, apprensione e quindi incertezza nei comportamenti. La “categorizzazione” è uno strumento potente che gli uomini hanno a disposizione per trasferire dallo sconosciuto al noto tutti quei mondi che per la loro alterità possono creare inquietudine. La disabilità è sicuramente uno di questi mondi. Non per caso intorno ad essa si sono create categorie all’interno delle quali si sono “costrette” le persone.
Confondere le persone con le categorie è sempre un grave errore, ma diventa un errore imperdonabile soprattutto laddove le categorie sono fortemente svalorizzate. Se pensiamo in particolare alla disabilità intellettiva, due immagini di questa categorizzazione appaiono in modo quasi automatico alla nostra mente: quella del “bambino da proteggere” e quella del “malato da curare”.
Si tratta di immagini rigidamente stereotipate che hanno però il grande vantaggio di creare rassicurazione poiché contengono regole di comportamento molto precise.
Si sa sempre come comportarsi di fronte ad un bambino e di fronte a un malato.
Una persona disabile intellettiva adulta invece ci rende maldestri, le nostre certezze vacillano, non sappiamo bene come fare ….
La scelta di rivolgersi a quella persona con il “tu” o con il “lei” per esempio si pone per un attimo, ma poi il “tu” spesso risolve il problema, semplifica il rapporto, mette a posto i rapporti di potere…
Se poi l’immagine del “bambino” non è sufficiente a rassicurarci, possiamo affiancarle quella del malato.
Ecco allora che la persona disabile “diventa” i suoi limiti, i suoi deficit, la sua malattia. E siccome un malato va curato, ecco il proliferare delle varie riabilitazioni.
Molto di ciò che è ordinario diventa riabilitazione: “andare a cavallo” diventa “ippoterapia”, “fare ginnastica” diventa “terapia psicomotoria”, “suonare uno strumento” diventa “musicoterapia” e così via.
Queste rappresentazioni della disabilità sono tuttora maggioritarie nella società.
Tuttavia le esperienze di inserimento, a scuola prima e nel mondo del lavoro dopo, hanno consentito di modificare, anche se parzialmente, queste immagini tanto che oggi ci consentono di parlare di una “visione antropologica della disabilità”.
Si tratta di un approccio che costringe a concentrarsi prima di tutto sull’immagine di “persona” intesa proprio nel suo significato originario di “maschera che si indossa per interpretare i ruoli che la vita ci propone”.
In questa prospettiva essere persona significa vedere riconosciuto il proprio diritto/dovere di essere inserito nei ruoli sociali valorizzati dando così il massimo di “senso” alla propria avventura umana.
Questa visione delle persone con disabilità porta ad affermare che ad esse vanno dunque riconosciute e garantite le stesse “normalità” psicologiche, affettive educative e di ruolo sociale di qualsiasi altra persona.
Tra queste normalità diventa essenziale quella che potremmo definire come la normalità di “progetto di vita”.
Considerare “persona” una persona disabile significa consentirgli di costruirsi un progetto di vita all’interno del quale “anticipare il desiderabile e il possibile”.
Un progetto di vita realistico all’interno del quale i limiti possono incontrarsi con le potenzialità e le capacità, (così come avviene per tutti), evitando di dover fare ricorso a massicce dosi di negazione nei confronti di una realtà percepita come troppo pericolosa o troppo dolorosa.
In questa prospettiva il ruolo lavorativo si presenta come una grande opportunità.
Attraverso il ruolo lavorativo una persona disabile può raggiungere una migliore definizione della propria identità e della propria autostima partecipando attivamente, attraverso il lavoro, alla costruzione del bene comune.
Il fatto che ci si interroghi su come mantenere e migliorare i percorsi di inserimento di lavoratori disabili ci costringe a prendere atto che la costruzione di una nuova immagine sociale della disabilità è ormai avviata.
Si tratta di una immagine ancora fragile e pericolosamente esposta a innumerevoli insidie, prima fra tutte quella di un ritorno a pratiche pietose, assistenziali e infantilizzanti. Tuttavia è solo garantendo e migliorando oggi le prassi di inserimento lavorativo di queste persone disabili che potremo continuare a chiedere anche ai bambini disabili “cosa vuoi fare da grande?”.